La quarta edizione del corso universitario “clima e cambiamenti climatici” sta per iniziare

La quarta edizione del corso universitario “clima e cambiamenti climatici” sta per iniziare

A giorni inizierà la quarta edizione del corso Clima e cambiamenti climatici, tenuto dal Prof. Claudio Cassardo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Il corso è aperto a tutti gli studenti di laurea triennale dell’ateneo torinese, esclusi i fisici che hanno un altro corso tutto per loro chiamato Introduzione al sistema climatico.

Il corso Clima e cambiamenti climatici può essere inserito sul piano carriera come corso a scelta oppure come altro insegnamento. Anche gli studenti interessati, provenienti da altri atenei, possono seguirlo come corso esterno, sempre però nell’ambito delle lauree triennali. Per i dettagli sull’esame si rimanda alla pagina Campusnet.

Eventuali persone non appartenenti ai precedenti ambiti possono comunque seguire le lezioni del corso, senza poi sostenere l’esame. Le lezioni si svolgeranno in classe (modalità preferibile) oppure a distanza in modalità sincrona e asincrona, ogni martedì dalle 16 alle 18 a partire dal 27 febbraio 2024 e fino al 27 maggio, ad eccezione del 2 e del 16 aprile. Totale: 24 ore, 3 cfu.

Le aule di lezione saranno la Sala Seminari 2 (a febbraio, marzo e maggio) e l’aula LL5 (ad aprile) del Campus Luigi Einaudi, mentre le lezioni online saranno trasmesse su WebEx (con inizio qualche minuto prima dell’orario di lezione). Le videoregistrazioni saranno inserite sulla piattaforma Moodle del corrente anno accademico (link disponibile a brevissimo).

Limmagine riportata mostra la temperatura media globale della superficie de lmare, in gradi °C. Fonte: Le Monde
 

Descrizione del Corso

Come nelle precedenti edizioni, che hanno registrato un notevole riscontro in termini di partecipazione alle lezioni, il corso rimarrà fruibile a studentesse e studenti di tutti gli ambiti disciplinari, non necessariamente scientifici, ma anche di tipo umanistico, economico o sociale, che vogliono approfondire le loro conoscenze sulle questioni inerenti il clima ed i cambiamenti climatici. 
I contenuti saranno delle basi che permetteranno di potersi rendere conto della gravità del problema climatico-ambientale e della necessità delle misure per ridurre gli effetti del cambiamento.
Non mancherà, nel corso delle prime lezioni, qualche momento di approfondimento sui cosiddetti “strumenti di lavoro”, come la statistica e i grafici, le basi necessarie da usare per la comprensione del linguaggio scientifico, mentre dal punto di vista del clima si partirà dai concetti di base, come i processi che regolano il clima terrestre e come funziona il sistema climatico terrestre. Altri argomenti saranno i metodi di indagine sul clima passato (proxy data) e futuro (i modelli numerici e l’interpretazione delle loro uscite), un cenno sulla storia climatica del pianeta, e alcune riflessioni finali su svariati argomenti, tra cui i principali effetti dei cambiamenti climatici, i concetti di adattamento e mitigazione, le politiche climatiche e un rapido excursus sulle cosiddette bufale climatiche.

Per partecipare

  • Per gli studenti UniTo: iscriversi alla pagina Campusnet e anche alla pagina Moodle del corso Clima e cambiamenti climatici per avere tutti gli aggiornamenti e le informazioni, e trovare i materiali didattici
  • Per gli altri: iscriversi alla pagina Moodle del corso (in caso di problemi: scrivere un messaggio a me all’indirizzo claudio.cassardo_AT_unito.it – al posto di _AT_ inserire la chiocciola)

Per Frequentare le lezioni

  • Recarsi nell’aula di lezione
  • Collegarsi a WebEx
  • Recuperare le videoregistrazioni dalla pagina Moodle
Dal 28 febbraio torna il “corso sul clima per tutti”

Dal 28 febbraio torna il “corso sul clima per tutti”

Uso di nuovo il mio blog, ultimamente un po’ dormiente, per pubblicizzare e dare informazioni sulla terza edizione di questo corso. L’anno scorso il post su questo corso ed i relativi commenti si sono rivelati anche l’unica fonte di informazioni per gli esterni che seguivano il corso come ospiti, dal momento che note e commenti sulle lezioni erano visibili solo agli iscritti. Per questo motivo, anche quest’anno ho deciso di seguire la stessa strada, e raccomando quindi agli interessati di leggere i commenti per avere informazioni sul corso durante il corso stesso.

Siamo così arrivati alla terza edizione di questo corso, da me fortemente voluto da diversi anni, e che sono finalmente riuscito a realizzare nel 2020-21, in piena pandemia. Farò ancora tesoro delle criticità emerse nelle due precedenti edizioni in modo da ridurre le problematiche, ma alla luce dei commenti ricevuti posso affermare – con mia grande soddisfazione – che, in generale, il corso è piaciuto molto ed ha anche avuto un grosso seguito, soprattutto l’anno scorso, con un centinaio di studenti di UniTo iscritti e diversi follower esterni.

Per le note sul corso ribadisco quanto già detto un anno fa. Questo corso si intitola “Clima e cambiamenti climatici” ed è offerto alla comunità di tutte le studentesse e tutti gli studenti universitari, inclusi coloro che provengono da corsi di laurea non appartenenti alle cosiddette “scienze dure“, tra cui cito anche i corsi di laurea a carattere umanistico. Infatti l’approfondimento è stato pensato per risultare comprensibile anche a chi non ha un background scientifico approfondito, o non ce l’ha del tutto, e anzi uno degli scopi del corso è proprio quello di apprendere come ci si approccia a una disciplina scientifica complessa, quale quella delle scienze del clima. Il corso è offerto dal Dipartimento di Fisica semplicemente perché io appartengo a tale dipartimento. Il corso ufficialmente è offerto all’interno della laurea triennale, ma può essere inserito anche all’interno di percorsi di laurea magistrale o anche di dottorato, specialmente se non appertenente alle “scienze dure”.

I dettagli specifici sul corso, di cui il sottoscritto è il docente, e le informazioni più particolareggiate si possono trovare sulla pagina universitaria ufficiale del corso, a questo link. Qui sotto riassumerò alcune note aggiuntive. L’anno scorso avevo registrato un podcast specifico dedicato a questo corso su Radio Ros Brera, la radio in cui da oltre due anni ho una mia rubrica dedicata alla meteoclimatologia (con oltre un centinaio di podcast), che rimane valido anche per quest’anno, per chi volesse sentirlo.

Nel seguito, sottolineo alcune notizie aggiuntive.

Date: tutti i martedì a partire dal 28 febbraio fino al 30 maggio 2023 (con esclusione dell’11 aprile, dopo Pasqua, e del 25 aprile).

Orario: 16-18.

Luogo: il corso si svolgerà in presenza (aula H1 del Campus Luigi Einaudi – CLE), ma potrà essere fruibile anche a distanza, in diretta (con collegamento online dalla classe nella mia stanza Webex) e in differita (le videolezioni saranno registrate e caricate sulla piattaforma Moodle (link) ). L’anno scorso, durante qualche lezione ci sono state delle problematiche di connettività internet che hanno abbassato la qualità audio-video delle lezioni, dovute ad un problema di banda strutturalmente presente nell’aula e allora non risolubile. Confido che quest’anno, nella nuova aula, tali problematiche non si verifichino più.

Informazioni durante il corso: chiedo a tutti gli studenti interessati di UniTo o Erasmus di iscriversi sia alla pagina Campusnet del corso, sia alla pagina Moodle (ora invisibile, ma verrà resa visibile a giorni). L’iscrizione permetterà di accedere al materiale didattico e di essere avvisati, durante il corso, in merito a eventi o variazioni dell’ultima ora via email. Gli esterni, di cui non possiederò l’email, possono seguire i commenti a questo blog, in cui riporterò gli avvisi.

Durata: 24 ore complessive (pari a 3 cfu);

Accessibilità alle lezioni: ci sono due possibilità.

  1. Chi necessita di superare l’esame (studenti dei corsi di laurea di UniTo, Erasmus in UniTo) deve essere formalmente iscritto a UniTo per poterlo sostenere, o se esterno deve iscriversi al corso come corso singolo (per i dettagli, siete pregati di sentire la segreteria studenti UniTo); in tal caso, a corso terminato, potrà dare l’esame secondo le modalità indicate, nel corso dei vari appelli successivi.
  2. Chi invece vuole soltanto seguire le lezioni e non necessita di dare l’esame o comunque di una certificazione di esame superato, può semplicemente venire in aula o collegarsi ai siti sopra elencati per seguire le lezioni, in diretta o in differita. Su richiesta, fornirò un’attestazione di presenza alle lezioni.

Programma: il corso, dopo una breve introduzione sui cosiddetti strumenti di lavoro, come la statistica e i grafici, ma non solo, che rappresentano le basi necessarie da usare per la comprensione del linguaggio scientifico, proseguirà con una parte dedicata alle nozioni di base sui processi che regolano il clima terrestre, come frutto dell’interazione tra i sottosistemi principali che lo compongono. Poi si passerà a vedere i metodi di indagine sul clima passato (proxy data) e futuro (i modelli numerici e l’interpretazione delle loro uscite), che permetterà di ripercorrere la storia climatica del pianeta, di cui si forniranno alcune istantanee. Infine le riflessioni finali su argomenti svariati: come interpretare correttamente i testi e le grafiche dei rapporti sul clima; un cenno ai principali degli effetti dei cambiamenti climatici; i concetti di adattamento e mitigazione, e le politiche climatiche; e infine un rapido excursus sulle cosiddette bufale climatiche.

Nota: questo corso non è stato pensato per gli studenti del corso di Laurea triennale (L.T.) in fisica e, in generale, per coloro che sono iscritti alle discipline scientifiche nel campo delle “scienze dure“. Infatti questi studenti hanno l’opportunità di scegliere tra un paniere di corsi sul clima a livello più approfondito e adeguato alla loro formazione, selezionabile dall’offerta formativa tra laurea triennale e magistrale (L.M.) in fisica (vedasi qui e qui). Tra gli altri, segnalo: Introduzione al sistema climatico (fino a quest’anno: Fisica del clima) (L.T. Fisica), Fisica del clima (L.M. Fisica), Sistemi complessi per la fisica del clima (L.M. Fisica dei sistemi complessi e L.M. Fisica). In particolare, gli studenti dei corsi di fisica non potranno inserire questo corso nel proprio piano carriera (in quanto lo stesso non verrebbe poi approvato), e sono invitati a scegliere uno degli altri corsi.

Confronto satellitare, a un anno di distanza, che mette in risalto la gravità della siccità, tuttora in corso, visto il quantitativo esiguo delle piogge cadute negli ultimi 13 mesi. Fonte: @CentroMeteoPiemonte/Facebook

È uscito il mio primo libro

Non sono solito pubblicizzare ciò che mi riguarda sul mio blog, ma per una volta faccio un’eccezione. Infatti è da poco uscito il primo libro che mi vede tra gli autori. Il libro si intitola “Temporali e tornado”, e in questo post vorrei non soltanto descriverlo ma raccontare anche qualche retroscena. Io sono stato coinvolto alla fine del 2019, quando sono stato contattato da Alberto Gobbi, il coordinatore della terza edizione, anche a nome degli altri autori dell’edizione precedente. Mi ha chiesto se sarei stato disponibile a scrivere un capitolo introduttivo parlando del clima e dei cambiamenti climatici, e ovviamente ricollegando questi temi all’argomento del libro. Mi sono preso un po’ di tempo a riflettere. Faccio divulgazione ormai da oltre un decennio su questi argomenti, che costituiscono anche l’oggetto delle lezioni nel mio corso universitario per il triennio di fisica (corso di Fisica del clima, che dal prossimo Anno Accademico si chiamerà Introduzione al sistema climatico), e ho scritto vari post su diversi blog, ma non mi ero mai cimentato prima d’ora nella scrittura di un vero libro. Si trattava, quindi, di una sfida nei confronti di me stesso, e siccome le sfide spesso mi attirano, l’ho accettata. Una volta presa la decisione, era appena iniziato il 2020 e mi sono messo a pensare dapprima a quali argomenti trattare, a cosa scrivere e con quale stile, e a quanto scrivere in ogni sezione, approssimativamente. Una volta predisposta questa traccia, mi sono confrontato con i coautori al fine di capire se era quello che si aspettavano, e la risposta è stata positiva. Terminate queste operazioni preliminari, ho iniziato a buttare giù uno schema di cosa avrebbe dovuto contenere ogni sottocapitolo, ed a cercare del materiale di aggiornamento più recente, comprendente sia i dati che le figure, che a volte “parlano” più delle parole, se opportunamente selezionate. Ho deciso di dedicare a questo lavoro supplementare un’ora al giorno, tutti i giorni, a partire dal 2 gennaio, di prima mattina, in modo da non sottrarre tempo al lavoro ordinario (ho così eliminato un’ora di sonno, ma per un breve tempo ed uno scopo così rilevante l’ho giudicato un sacrificio accettabile). Una volta terminata la prima stesura, ancora abbozzata, era già fine febbraio. Ho quindi proceduto alla rilettura, dedicandomi alla rifinitura di alcuni argomenti solo abbozzati e anche alla selezione delle figure, ed alla loro rielaborazione, in modo da segnalare all’editore le eventuali fonti da cui mi ero ispirato. La parte che ho trovato più complessa da descrivere è stata l’ultima,

dedicando un’ora al giorno alla scrittura del libro, dopo un’accurata stesura della ramificazione dei sottocapitoli e una stima della loro lunghezza.

Un corso sul clima pensato per “tutti”

Un corso sul clima pensato per “tutti”

Questa volta, nel mio blog, inserisco un post rapido e un po’ auto-pubblicitario per portare a conoscenza di tutti gli interessati che, per il secondo anno consecutivo, il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino offre un corso intitolato “Clima e cambiamenti climatici“, aperto alla comunità di tutte le studentesse e tutti gli studenti universitari, soprattutto per coloro che provengono da corsi di laurea non appartenenti alle cosiddette “scienze dure“, tra cui cito anche i corsi di laurea a carattere umanistico. Infatti l’approfondimento è stato pensato per risultare comprensibile anche a chi non ha un background scientifico approfondito, o non ce l’ha del tutto, e anzi uno degli scopi del corso è proprio quello di apprendere come ci si approccia a una disciplina scientifica complessa, quale quella delle scienze del clima.

I dettagli sul corso, di cui il sottoscritto sarà il docente, nonché il link alla pagina del corso e a informazioni più precise, si possono trovare a questo link.

Inoltre, ho registrato un podcast specifico dedicato a questo corso su Radio Ros Brera, la radio in cui da oltre due anni ho una mia rubrica dedicata alla meteoclimatologia (con quasi un centinaio di podcast).

Nel seguito, sottolineo alcune notizie aggiuntive.

Date: tutti i martedì a partire dall’8 marzo fino al 7 giugno 2022 (escluse le vacanze pasquali).

Orario: 16-18.

Luogo: il corso si svolgerà sia in presenza (aula Wick del Dipartimento di Fisica) sia a distanza, in diretta (collegamento online dalla classe nella mia stanza Webex) e in differita (le videolezioni saranno registrate e caricate sulla piattaforma Moodle (link) ). Le lezioni in aula al momento sono riservate solo agli studenti UniTo o Erasmus UniTo (capienza ridotta e emergenza sanitaria) previa prenotazione attraverso l’uso dell’app “Student Booking“.

Durata: 24 ore complessive (3 cfu);

Accessibilità alle lezioni: due possibilità.

  1. Chi necessita di superare l’esame (studenti dei corsi di laurea di UniTo, Erasmus in UniTo) deve essere formalmente iscritto per poterlo sostenere, anche eventualmente mediante l’iscrizione al corso singolo (per i dettagli, siete pregati di sentire la segreteria studenti UniTo).
  2. Chi invece vuole soltanto seguire le lezioni e non necessita di una certificazione di esame superato, può semplicemente collegarsi ai siti sopra elencati per seguire le lezioni, o in diretta o in differita. Su richiesta si potrà fornire un’attestazione di presenza alle lezioni.

Programma: il corso, dopo una breve introduzione sui cosiddetti strumenti di lavoro, come la statistica e i grafici, ma non solo, che rappresentano le basi necessarie da usare per la comprensione del linguaggio scientifico, proseguirà con una parte dedicata alle nozioni di base sui processi che regolano il clima terrestre, come frutto dell’interazione tra i sottosistemi principali che lo compongono. Poi si passerà a vedere i metodi di indagine sul clima passato (proxy data) e futuro (i modelli numerici e l’interpretazione delle loro uscite), che permetterà di ripercorrere la storia climatica del pianeta, di cui si forniranno alcune istantanee. Infine le riflessioni finali su argomenti svariati: come interpretare correttamente i testi e le grafiche dei rapporti sul clima; un cenno ai principali degli effetti dei cambiamenti climatici; i concetti di adattamento e mitigazione, e le politiche climatiche; e infine un rapido excursus sulle cosiddette bufale climatiche.

Nota: questo corso non è stato pensato per gli studenti del corso di Laurea triennale (L.T.) in fisica e, in generale, per coloro che sono iscritti alle discipline scientifiche nel campo delle “scienze dure“. Infatti questi studenti hanno l’opportunità di scegliere tra un paniere di corsi sul clima a livello più approfondito e adeguato alla loro formazione, selezionabile dall’offerta formativa tra laurea triennale e magistrale (L.M.) in fisica (vedasi qui e qui). Tra gli altri, segnalo: Introduzione al sistema climatico (fino a quest’anno: Fisica del clima) (L.T. Fisica), Fisica del clima (L.M. Fisica), Sistemi complessi per la fisica del clima (L.M. Fisica dei sistemi complessi e L.M. Fisica).

In particolare, gli studenti dei corsi di fisica non potranno inserire questo corso nel proprio piano carriera (in quanto lo stesso non verrebbe poi approvato), e sono invitati a scegliere uno degli altri corsi.

I roghi che hanno interessato la Val di Susa, a seguito della forte siccità, minacciando anche alcuni centri abitati, il 29 ottobre 2017. Fonte: ANSA/ FEDERICO MILESI FOTO
Primavera 2021: davvero pazza, o solo un po’ esuberante?

Primavera 2021: davvero pazza, o solo un po’ esuberante?

Leggo da varie parti continue lamentele sul freddo di questi primi 48 giorni di primavera (noi meteorologi la facciamo iniziare dal 1° marzo), e strali contro chi – come il sottoscritto – insiste nel dire che la primavera è una stagione di transizione in cui, da sempre, si alternano fasi fredde, tipiche dell’inverno, e fasi calde, tipiche dell’estate. In particolare, forse proprio a causa delle ondate di calore intense verificatesi nel recente passato durante le fasi calde primaverili, e magari anche a causa di una errata percezione del significato della locuzione “riscaldamento globale”, si è diffusa sempre più l’idea che in primavera non debbano verificarsi mai le fasi fredde. A questo contribuiscono anche i titoloni del tipo “Addio primavera, … torna l’inverno” o simili, sciaguratamente pubblicati anche su testate di grande diffusione (vedi ad esempio qui), che contribuiscono a rinforzare questa idea sbagliata. Ma, alla base di tutto, rimane il fatto che non è ancora chiaro il concetto di variabilità meteorologica e clima, e quindi della loro differenza. E quindi torno, per l’ennesima volta, a ribadire il concetto, anche se temo che, come spesso si dice, “non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”. Inoltre, un altro aspetto da sottolineare è che non sempre ciò che accade “nel nostro orticello” è rappresentativo di quello che accade nel pianeta.

Inizierei proprio da questo ultimo punto. È evidente che ognuno di noi può essere condizionato dal tempo che accade “a casa propria”, ma spesso il clima si misura “allargando la vista” sia nello spazio che nel tempo. Per quanto riguarda lo spazio, la superficie dell’Italia è di circa 324.000 km2, mentre quella della Terra è di 510.100.000 km², per cui l’Italia ne costituisce lo 0,06%. Uno potrebbe obbiettare che occorre considerare solo le terre emerse (ma gli oceani non è che non contino nulla sul clima…), ma le cose non cambiano molto: la superficie di tutte le terre emerse è di circa 149.000.000 km², e in questo caso l’Italia ne costituisce lo 0,2%. Quindi, anche se per un italiano è importante quello che avviene nel proprio paese (se non addirittura nella propria regione, o provincia, o città), non si può dire che le vicende nostrane siano rappresentative di quello che avviene sulla Terra. Neppure il continente europeo (estensione di circa 10.100.000 km², pari al 6,7% delle terre emerse, e di cui l’Italia ne rappresenta il 5,1%), si può dire significativo delle vicende climatiche globali. Per dire, la sola Groenlandia, con i suoi 2.166.000 km², ha un’estensione di circa 6,6 volte l’Italia, ma neppure essa può dirsi rilevante a livello globale, anche se il fatto che circa l’8% dei ghiacci del mondo si trovi su quell’isola la rende uno dei punti climatici più critici. Ma in Groenlandia non ci abita nessuno e quindi le notizie sui suoi estremi climatici non fanno breccia. Qualcuno può obbiettare che proprio il numero di abitanti può essere un fattore rilevante, ma il conto non torna neppure in questo caso: infatti, i circa 59.260.000 di italiani, se rapportati ai 7,858 miliardi di persone viventi sulla Terra, ne costituiscono lo 0,75%. E quindi? Tutto questo per arrivare a dire che, se anche in un certo mese o bimestre, o anche stagione o anno, osservo un periodo più freddo o più caldo della media in Italia, questo non significa che il mondo si stia rispettivamente raffreddando o scaldando, così come se vedo che un italiano sta rubando non posso dedurne che tutti gli italiani rubino.

Relativamente alla dimensione temporale, pare che Mark Twain abbia affermato: “Climate is what we expect, weather is what we get” (“Il clima è ciò che ci aspettiamo, il tempo è ciò che accade”. I termini “tempo” (meteorologico) e “clima” sono strettamente correlati tra loro, ma hanno significati diversi. Entrambi si riferiscono a cambiamenti nelle variabili atmosferiche – come la temperatura dell’aria, l’umidità, il vento e le nubi – ma in periodi di tempo diversi.

Riprendendo il discorso da me tracciato nell’introduzione nel capitolo introduttivo, sul clima, presente nel libro Temporali e tornado (uscito negli ultimi giorni del 2020), si può dire che il clima rappresenta il risultato dell’analisi statistica delle condizioni meteorologiche occorse su un dato territorio entro un determinato intervallo di tempo, che deve essere sufficientemente lungo da evitare le ciclicità a breve periodo che caratterizzano la variabilità meteorologica (come il ciclo giornaliero, quello stagionale, quello delle teleconnessioni atmosfera-oceano tipo NAO o ENSO, o ancora il ciclo undecennale delle macchie solari), ma sufficientemente breve da consentire di avere più periodi di media disponibili, considerando che le misure di temperatura media globale sono disponibili solo dal 1850-1880.

Per questo motivo, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) ha deciso di considerare un trentennio come il periodo base su cui effettuare le statistiche dei dati meteorologici onde ottenere informazioni di tipo climatico. Appare quindi evidente come proprio questo discrimine temporale permetta di separare il clima dalla meteorologia: il clima è piuttosto una sorta di contenitore che racchiude al suo interno i vari eventi meteorologici, la cui statistica, ovvero il calcolo del valore medio (la statistica più semplice), della variabilità, dei valori estremi, permette di definire il clima stesso. Da questo si capisce come non abbia neppure senso parlare di “evento climatico” e come sia errato parlare di clima nel caratterizzare eventi di durata inferiore al trentennio, che definisce il periodo climatico stesso. Così un ciclone (tropicale o extratropicale), un anticiclone, un mese o un anno particolarmente freddo, caldo, secco o piovoso, fanno comunque parte degli eventi meteorologici e quindi non ha senso associarli a clima rispettivamente freddo, caldo, secco o piovoso, come purtroppo si legge spesso sui mass media o sui social.

Ho voluto qui provare, usando il sito americano del NOAA Physical Sciences Laboratory che permette di graficare i dati meteoclimatici di tutto il mondo giorno per giorno, a valutare negli ultimi dodici anni (dal 2010 al 2021) i valori medi nel periodo 1 marzo – 15 aprile, confrontandoli con il trentennio di riferimento 1981-2010 (quindi sono anomalie). Il risultato (Fig. 1) è molto interessante perché mostra esattamente quello che abbiamo detto poco innanzi.


Fig. 1 – anomalie di temperatura mediata sul periodo 1 marzo – 15 aprile rispetto al trentennio 1981-2010 per ognuno degli anni 2010-2021 sull’Europa. Grafici creati dal sito web del NOAA Physical Sciences Laboratory e collage creato con FotoJet.

Se ci focalizziamo, ad esempio, sul nord Italia, possiamo vedere che ci sono stati anni più caldi, con anomalie positive (2012, 2014 e soprattutto 2017) e anni più freddi, con anomalie negative (2010, 2018 e soprattutto 2013), mentre gli altri anni hanno mostrato anomalie più modeste. Il 2021 ha mostrato un’anomalia lievemente negativa (nulla sul nordovest). Se però spostiamo l’attenzione sul meridione italiano, le statistiche risultano lievemente diverse, a riprova che, anche su un territorio “piccolo” come quello italiano, rispetto alla vastità del nostro pianeta (ma pur sempre in grado di racchiudere molte delle zone climatiche individuate dalla classificazione dei climi di Köppen), le situazioni nei primi 45 giorni della primavera meteorologica possono essere diversificate. Un discorso del tutto analogo lo si potrebbe fare parlando della pioggia.

Naturalmente, con questo discorso non voglio sminuire né i record di freddo registrati in moltissime località interne e adriatiche a inizio aprile, spesso con neve anche in pianura (qui una carrellata di alcuni eventi significativi), né i molti record di caldo registrati in svariate località nell’ultima decade di febbraio (che è però inverno). Si è trattato di due eventi meteorologici che non ho difficoltà a definire in entrambi i casi quasi estremi e poco comuni, talora ai limiti dello straordinario (per poter definire straordinario un evento occorre però non farsi prendere dalle sensazioni, talora poco oggettive, e valutare la statistica delle osservazioni in zona). Però, almeno a livello nazionale, questi due estremi si sono praticamente compensati e la prevalente debole anomalia negativa che si registra nei tre quarti del territorio nazionale nei primi 45 giorni primaverili dimostra che, nonostante il freddo intenso di inizio aprile e le altre ondate di freddo, meno intense ma frequenti, il periodo nel suo complesso non è risultato tra i più freddi degli ultimi anni, tra cui spicca invece il caso del 2013. In questa mia mini-analisi non ho certo la pretesa di fare una disamina climatica (mi sono limitato a mostrare gli ultimi 12 anni e non il trentennio), ma semplicemente di mostrare, dati alla mano, come non sia affatto vero che la primavera non sia mai associabile ad eventi di freddo. Con un po’ di pazienza, si potrebbero analizzare anche gli eventi giornalieri, e anche in questo caso si arriverebbe agli stessi risultati.

Naturalmente tutto questo non dimostra affatto che non c’è alcun cambiamento climatico in corso. Se si guardano anche solo i valori sull’Europa nelle dodici mappe di sopra, infatti, si vede che c’è una grande varietà di andamenti, ma che in realtà non manca quasi mai una zona con un’anomalia positiva anche quando la nostra Italia è pervasa da anomalie negative. Anche il 2013, in cui sembrano dominare le anomalie negative, se visto a scala globale (Fig. 2) evidenzia molte zone con anomalie fortemente positive, anche se spesso su aree o scarsamente popolate (Groenlandia, Antartide) o ritenute dai media scarsamente importanti (Tibet, Asia centrale, Siberia), e che quindi non fanno notizia. Nel 2013, poi, anche gli USA, in tale periodo, hanno fatto registrare vistose anomalie sia positive che negative, ma sono state le seconde a trovare spazio sui giornali (solo la siccità estrema in California è riuscita a trovare notizia). E se si calcola l’anomalia media a scala globale si vede che, ahimè, è sempre positiva.

Fig. 2 -  anomalie di temperatura mediata sul periodo 1 marzo – 15 aprile rispetto al trentennio 1981-2010 per il 2013 sulla Terra. Grafici creati dal sito web del NOAA Physical Sciences Laboratory.
Fig. 2 – anomalie di temperatura mediata sul periodo 1 marzo – 15 aprile rispetto al trentennio 1981-2010 per il 2013 sulla Terra. Grafici creati dal sito web del NOAA Physical Sciences Laboratory.

Insomma, in definitiva possiamo concludere che la primavera 2021 non ha fatto che confermare la variabilità tipica di questa stagione di transizione, in cui la differenza di temperatura tra le masse d’aria presenti oltre il circolo polare artico e quelle “sotto” i tropici è ancora molto grande, per cui spesso si osservano intrusioni dell’una o dell’altra. Per ora, nel 2021 la primavera ne ha fatte vedere più di fredde, in un caso ai limiti dell’eccezionalità, mentre però l’inverno si era congedato con un’ondata di calore molto forte. Quindi non si tratta di pazzia (le stagioni non sono mai né pazze né impazzite), ma se proprio vogliamo trovare un aggettivo che personifichi i primi 45 giorni di questa stagione nel 2021, beh potremmo definirla alla Botticelli, cioè normale e un po’ esuberante.

La riforestazione può compensare le emissioni di gas serra dei voli?

La riforestazione può compensare le emissioni di gas serra dei voli?

Nei giorni scorsi mi è stata posta una domanda in merito alla questione della relazione tra emissioni di gas serra, in particolare di CO2, e riforestazione. La domanda specifica era se ritenevo ipotizzabile compensare le emissioni di un volo aereo con il metabolismo delle piante.

Poiché non mi occupo specificamente di questi argomenti nelle mie ricerche (e l’ho premesso nella risposta come lo premetto qui), ho fatto alcune ricerche ed ho provato ad abbozzare due conti “della serva” per provare ad arrivare ad un ordine di grandezza, e siccome ci ho messo un certo tempo provo a riproporli in questo post, in quanto magari possono fornire degli spunti. Inoltre i numeri possono spiegare le conclusioni a cui arriverò, che collimano con quanto detto più volte da chi lavora nel campo.

Premetto che, da profano, ho provato a reperire i dati mediante delle semplici ricerche su internet. Avendo maggiore tempo, si potrebbero cercare dati più dettagliati.

Innanzitutto, mi viene da dire che il problema è attuale in quanto ogni anno ogni nazione deve compilare l’inventario delle proprie emissioni, e per poterlo fare deve necessariamente valutare in qualche modo tutti i termini del bilancio, tra cui anche le emissioni dovute ai voli e l’assorbimento delle piante (ovviamente qui parlo di CO2), ma anche oceani e mari, e il suolo, che in realtà può sia emettere che assorbire.

Le piante, stando alle statistiche reperibili qui, assorbono il 27% delle emissioni, per un totale di 2,4 miliardi di metri cubi di CO2 all’anno, e la utilizzano (banalizzando) per produrre foglie e legno (fotosintesi). Mentre le foglie partecipano in gran parte al ciclo annuo, che è breve, il legno rappresenta uno stoccaggio più duraturo di CO2, almeno finché la pianta continua a crescere (quindi soprattutto quando è giovane). Ovviamente, più piante si piantano e più CO2 viene stoccata nelle piante stesse. Altrettanto ovviamente, esiste una limitazione fisica nella superficie utilizzabile per la riforestazione, e poi tutto dipende da quale fine farà il legno stoccato in queste piante. Se, in qualunque modo, verrà bruciato, il ciclo si chiuderà e la CO2 tornerà in atmosfera. Per onore di cronaca, tra il 2015 e il 2020, il rateo di deforestazione nel mondo è stato dell’ordine dei dieci milioni di ettari all’anno: inferiore a quello degli anni ’90, ma pur sempre negativo, cioè la superficie forestata nel mondo sta continuando a diminuire, mentre dovrebbe aumentare (dati disponibili qui).

Ma adesso parliamo delle nostre emissioni. Per compensarle, dovrei piantare N piante. Questo vale anche per i voli, e diventa così curioso immaginare quale valore potrebbe assumere N e a quale superficie forestata corrisponderebbe. Per ora lasciamo perdere il fatto che, dopo un po’ di anni (che dipende dal tipo di piante), dovrei sostituire le piante vecchie, malate o decedute, divenute poco o per nulla efficaci nell’assorbire CO2.

Proviamo quindi ad abbozzare un conto molto improvvisato per capire di quali numeri si tratta.

Il primo dato che ci serve è capire quanta CO2 viene sequestrata da una pianta. Su questo sito si afferma che un albero medio alto 45 m e con un tronco di 20 cm di diametro sequestrerebbe 174 kg di CO2 in 10 anni, quindi 17,4 kg all’anno. E questo è un primo dato di partenza.

Il secondo dato che ci serve sono le emissioni associate a un singolo volo. Ho provato a ipotizzare un volo intercontinentale Torino – New York su questo sito, e con qualche conto sono arrivato ad un valore di 2317 kg di CO2. Secondo il sito questo valore corrisponderebbe a piantare 59 “alberi di città”, che devo poi capire bene di quali piante si tratti, visto che nella mia città (Torino) ci sono sia alberi di alto fusto in parchi e viali, che altri alberi decisamente più piccoli in altre zone. Teniamo comunque conto che i valori vanno raddoppiati, perché prima o poi dovrò tornare a casa, a meno che non decida di trasferirmi negli USA, quindi il valore di 2317 kg di CO2 diventa 4634 e gli alberi da piantare 118.

Usando il valore di 17,4 kg/anno sequestrato da una pianta media, trovato poco sopra, il numero di alberi diventa invece di 266, quindi più del doppio rispetto a quanto indicato dal sito precedente. La differenza è notevole, ma – come vedremo tra breve – questa ampia forchetta non cambia la sostanza del discorso.

Tenendo conto di questa incertezza, si può provare a capire quanto terreno mi servirebbe per piantare questi alberi. Sfogliando il rapporto reperibile su questo sito, che si riferisce in realtà a un pioppeto, nelle prime pagine si trova che la densità tipica di piante è di 280 per ettaro. Se non ho sbagliato qualche conto, ne deriva che, per compensare le emissioni, mi servirebbero tra 0,42 e 0,95 ettari (la forchetta sul numero di piante si ripercuote su questi numeri). Tanto o poco?

Proviamo a vederlo per la regione in cui vivo: il Piemonte. Qui abitano 4329000 persone (fonte: Wikipedia). Se ipotizziamo che un decimo delle persone faccia un volo simile all’anno (NB: questa ipotesi è totalmente presa a caso), viene fuori che servirebbero tra 1730 e 4110 km2, ovvero il 7-16% della superficie complessiva del Piemonte (25387 km2).

Ne seguono alcune considerazioni.

La mia stima del numero di voli è del tutto arbitraria. Non ho trovato dati in merito. Tuttavia, il numero di passeggeri partiti da Torino nel 2019 è stato di circa quattro milioni (fonte: Wikipedia), e anche se sicuramente non tutti hanno fatto voli internazionali, è possibile che almeno l’ordine di grandezza della stima abbia un senso, inteso almeno come valore medio. Naturalmente, chi avesse dati più precisi in merito è benvenuto.

Attualmente l’area forestata del Piemonte assomma a 976953 ha (fonte: Regione Piemonte), ovvero 9770 km2. In questo spazio vivono circa un miliardo di alberi, quindi la densità effettiva è di circa 1000 alberi per ettaro: quasi quattro volte (precisamente, 3,57) superiore a quella del pioppeto che ho considerato sopra. Bene: ipotizziamo pure di dividere per 3,57 le superfici trovate in precedenza: otteniamo una forchetta di 485-1151 km2.

Si tratta, comunque, di numeri enormi, considerando che tutto questo conto varrebbe soltanto per la compensazione di un volo aereo intercontinentale per un decimo degli abitanti del Piemonte, e poi andrebbero considerate anche tutte le altre emissioni. E considerando che, ovviamente, non è che tutto il territorio non occupato dalle foreste sia libero e utilizzabile per piantare alberi. Sulla base di questi conti rudimentali da me effettuati, pur con tutte le imprecisioni che essi contengono, ne deduco che il problema principale della riforestazione è che non abbiamo sufficiente terreno dove piantare le piante che servirebbero. Peraltro, i dati disponibili per il Piemonte rivelano che fin dal dopoguerra c’è una tendenza all’incremento della superficie boscata, quasi raddoppiata nell’ultimo settantennio, ma più a causa della colonizzazione spontanea di terre abbandonate che per il rimboschimento artificiale (fonte: Regione Piemonte).

Concludo affermando che certamente la riforestazione può aiutare, in piccola parte, a compensare le emissioni, e quindi ben venga, ma è impossibile pensare che con la sola riforestazione si possa risolvere il problema delle emissioni di gas serra continuando ad emettere come si fa ora.

I fulmini: conoscerli e saperli evitare

Lo scorso 3 luglio 2020, alle ore 20, sul Piemonte era appena transitata, come peraltro previsto da giorni, una linea temporalesca che aveva attivato al suo seguito una supercella che in poche ore aveva ricoperto gran parte
della pianura padana. Da almeno cinque ore si erano susseguiti tuoni e lampi senza sosta.

Già, i fulmini. E ne sono caduti parecchi a seguito di quella situazione…

Ma come mai si verificano questi fenomeni elettrici in una nube temporalesca, tanto che, in inglese, il temporale si chiama proprio thunderstorm, cioè letteralmente tempesta di tuoni? Quanto sono pericolosi, e come difendersi da questi fenomeni?

La mia pillola oggi parla proprio dei fulmini. Lo so che se ne parla spesso, ma purtroppo ogni anno muoiono ancora delle persone. In Italia, una ventina all’anno. Certo, per fortuna non sono tantissimi, ma in ogni caso sono casi che si potrebbero evitare. Per cui, a costo di essere ripetitivi, ho voluto raccontarvi come si originano i fulmini, di che tipo sono, dove cadono le scariche, la questione delle scariche secondarie, e un minimo di informazioni su come cercare di evitarli. Qualche chicca?

Il modo migliore per evitarli sarebbe di rimanere in casa quando c’è rischio di fulmini, ma ovviamente non sempre è possibile.

Si rischia a rimanere in mare, facendo il bagno? Assolutamente si, non è una buona idea.

E se mi sdraio per terra, posso essere tranquillo? No, neppure questa è una buona idea…

Queste e altre informazioni le trovate nel mio nuovo video, a questo link (oppure cliccare sulla figura)

che al solito è basato sul podcast audio di Radio Ros Brera ma arricchito con immagini e video.

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Gli anticicloni, questi oggetti misteriosi

Gli anticicloni, questi oggetti misteriosi

Dopo un mese di giugno nelle medie del trentennio 1981-2010, con spazio per instabilità, ed un inizio di luglio sulla stessa falsariga, ho deciso di parlare degli anticicloni, che ultimamente spesso sono chiamati per nome senza che in realtà si conosca per bene la loro dinamica e le loro caratteristiche. Per molti anticiclone è sinonimo di bel tempo e cielo sereno, ma vedremo che non sempre è così, D’inverno l’alta pressione porta inquinamento nei bassi strati e nebbie, e d’estate può portare l’afa, cioè il caldo umido. Inoltre, spesso si parla impropriamente di anticiclone quando in realtà c’è un promontorio.

Questo post è la trascrizione letterale del filmato presente sul mio canale You Tube (iscrivetevi sul mio canale!) e su IGTV (a cui rimando per una visione figurativa), a sua volta costruito su questo podcast apparso su Radio Ros Brera.

Buongiorno dal vostro meteoclimatologo Claudio Cassardo. Nella pillola di oggi voglio parlarvi degli anticicloni.

Come dice la parola stessa, un anticiclone, antonimo di ciclone, è una circolazione a grande scala attorno a una regione di alta pressione, in senso orario nel nostro emisfero e antiorario nell’emisfero australe. Per intenderci, in meteorologia con grande scala si intende la grandezza di un continente. A causa dell’alta pressione presente nel suo centro, l’aria tende a muoversi scorrendo verso l’esterno, spinta dal gradiente di pressione. Tuttavia, siccome La Terra ruota, questo moto viene complicato dalla presenza della forza di Coriolis, che tende – nel nostro emisfero – a deflettere verso destra le correnti. Il risultato è che si viene a formare una corona circolare di correnti uscenti dal massimo anticiclonico verso l’esterno a livello del suolo, mentre al suo centro l’aria viene richiamata dagli strati superiori verso il basso, generando così i cosiddetti moti verticali di subsidenza, cioè correnti di aria che scendono dalla tropopausa – che, ricordiamo, è lo stato stabile in cui la temperatura smette di diminuire con l’altezza, posto alle nostre latitudini tra circa 9 e 12-15 km, verso la superficie

Una corrente d’aria discendente è in genere secca; questo perché una massa d’aria che inizia a scendere ha un suo contenuto iniziale di vapore acqueo – e quindi una sua umidità relativa – che dipende dalla sua temperatura. Durante la discesa, tuttavia, la pressione atmosferica aumenta, e quindi aumenta anche la sua temperatura per la maggiore compressione. I fisici chiamano questo processo adiabatico. La legge di Clausius-Clapeyron ci dice che, all’aumentare della temperatura, aumenta anche il quantitativo di vapore acqueo alla saturazione, cioè il massimo contenuto di vapore acqueo che l’aria può contenere prima che esso debba condensare. L’umidità relativa – quella che è espressa in percentuale – ci dice proprio quale percentuale di vapore acqueo è presente rispetto alla saturazione. Ad esempio, quando si dice che l’umidità relativa è del 75%, vuol dire che – in quelle condizioni – ci sta ancora il 25% di vapore acqueo. Oltre tale valore, quello in eccesso condensa, formando nebbia o nubi. Se una massa d’aria scende e si scalda, questa percentuale tende a diminuire. Questo perché il numeratore di questa frazione, che rappresenta quanto vapore acqueo effettivamente è presente nella massa d’aria, non cambia; mentre il denominatore, che rappresenta quanto vapore acqueo può stare in atmosfera, aumenta. Quindi non dobbiamo stupirci se, normalmente, gli anticicloni sono associati a cieli sereni temperature alte, e ottima visibilità. Però più avanti vi dirò che non è sempre così: sarebbe troppo facile!

Ora però vorrei accennare alla differenza tra un anticiclone e un promontorio di alta pressione. Nel primo caso, cioè l’anticiclone, se noi producessimo un grafico tridimensionale della pressione, vedremo una sorta di collina il cui punto più alto rappresenterebbe – appunto – il massimo di pressione. Nel caso di un promontorio, invece, si parla di un prolungamento di un’area anticiclonica che, nella visione tridimensionale, assumerebbe l’aspetto di un crinale che dalla collina si protende verso una direzione, abbassandosi gradualmente di quota man mano che ci si allontana dall’area centrale. Molto spesso, quando si parla di anticiclone africano, in realtà si tratta di un promontorio che, dall’Africa, sconfina fin sul bacino del Mediterraneo.

Ora vediamo qualche numero che ci comprendere la questione del gradiente di temperatura. Prendiamo come esempio il radiosondaggio di Cuneo dello scorso 23 giugno, alle ore 12 UTC (ricordo che GMT o UTC sono la sigla del tempo universale, cioè quello riferito alle ore solari sul meridiano di Greenwich, d’estate; noi siamo due ore più avanti rispetto a quell’ora). In quel giorno il Piemonte era sotto l’influenza temporanea di un promontorio dell’anticiclone africano. Quel radiosondaggio lo potete trovare facilmente sul sito web dell’università del Wyoming impostando su Google la chiave di ricerca “Wyoming radiosounding” in inglese. Guardando il radiosondaggio, la tropopausa in quel giorno si collocava a circa 12 km di quota, e la temperatura a quella quota era di circa -60 °C. Più in basso, alla quota di circa 3 km, la temperatura era di circa 7 °C. 67 °C in 9 km significano un gradiente di temperatura effettivo di circa 7,4 °C al chilometro. Questo è un valore superiore al gradiente tipico della troposfera, che normalmente si assume essere di 6,5 °C al km. Notiamo che un processo adiabatico perfetto secco porterebbe a un gradiente di circa 10 °C al chilometro. Ma siccome il movimento verticale di discesa dell’aria degli anticicloni è lento e si produce un certo rimescolamento dell’aria, non si arriva mai a questi limiti su strati così spessi. Già il fatto che il gradiente verticale sia superiore a 6,5 °C al chilometro, che è il valore standard, denota la presenza della compressione adiabatica. Notiamo ancora come, in tale strato, l’umidità dell’aria diminuisca progressivamente man mano che dalla tropopausa scendiamo fino ai 3 km di quota: i meteorologi esperti lo capiscono guardando il profilo della temperatura di rugiada, che è una grandezza collegata all’umidità (un giorno vi spiegherò esattamente di che cosa si tratta). Quindi si può notare come i profili di temperatura e di temperatura di rugiada, cioè le due linee nere e spesse sul radiosondaggio, si allontanino progressivamente scendendo dai 12 ai 3 km.

Qualcuno si sarà chiesto perché io abbia fatto il calcolo fermandomi a 3 km invece che proseguire fino al suolo. Ovviamente c’è un motivo, ed è lo stesso motivo per il quale vi ho detto che non sempre negli anticicloni o nei promontori anticiclonici il tempo è sereno. Lo strato di atmosfera vicino al suolo è influenzata dal suolo stesso e risente quindi delle sue condizioni, e per questo ha un nome particolare: si chiama strato limite. Nei testi di fisica dell’atmosfera, lo stato limite è definito mediamente come spesso circa un chilometro e mezzo, ma in realtà lo spessore varia con le stagioni e il tipo di tempo. D’inverno, a causa della radiazione solare molto inclinata anche nelle ore più calde, lo spessore dello strato limite può limitarsi anche a qualche centinaio di metri, mentre d’estate tale spessore può arrivare anche a 2-3 km. In questo strato, nelle ore più calde c’è la convezione: è un fenomeno fisico identico a quello che fa bollire l’acqua del tè nella pentola sul gas, e aiuta a trasportare il calore dal suolo verso l’alto, in quel caso dalla pentola verso l’alto. Ovviamente, d’estate, questo fenomeno, almeno di giorno, è molto efficace. Quindi che cosa capita? Abbiamo due diversi tipi di movimenti verticali negli anticicloni: nello strato limite, più vicino al suolo, l’aria si solleva verticalmente (la convezione). Nella parte alta della troposfera, l’aria invece scende verticalmente (la subsidenza). Torniamo al radiosondaggio di Cuneo del 23 giugno alle 12 UTC, al suolo, che a Cuneo vuol dire circa 500 m, c’erano circa 27 °C, mentre a 3 km di quota, partendo dal basso stavolta, c’erano 5 °C: quindi un raffreddamento di 22 °C in due chilometri e mezzo, pari a un gradiente di 8,8 °C al chilometro, addirittura superiore a quello visto prima perché qui lo strato è più sottile e i moti sono più vigorosi.

Però, se vi ricordate, c’è un problema: a 3 km abbiamo 5 °C se saliamo dal basso, ma 7 °C se scendiamo dall’alto. Quindi sembra che lo strato limite sia più fresco di quanto non lo sia l’atmosfera soprastante. Ecco che quindi si crea un piccolo strato di inversione termica. Si chiama inversione perché, in questo strato sottile di atmosfera, che a Cuneo in quel giorno era spesso meno di 500 m, la temperatura aumenta da 5 a 7 °C salendo, invece di diminuire. Questa presenza di uno strato di inversione termica non è una stranezza di questa località o di questo giorno, ma una caratteristica tipica delle situazioni anticicloniche o di promontorio. Se l’anticiclone è ben strutturato e robusto, l’inversione può essere anche più marcata. Siccome uno strato di inversione termica è molto stabile (per capirlo servirebbe la fisica, ma si può intuire, pensando che, quando l’aria fredda – cioè più densa – sta più in basso dell’aria calda – cioè meno densa – la situazione è molto stabile), ne consegue che questo strato fa da barriera e non permette alle due circolazioni di frammischiarsi.

Come dicevo, d’inverno l’altezza dello strato limite è solo di qualche centinaio di metri e così, durante le giornate di alta pressione, anche nelle zone di bassa montagna – diciamo dai 1000 metri in su – le temperature sono insolitamente alte perché tali zone sono interessate direttamente da questi moti discendenti. Perché ho detto che non sempre il cielo è sereno? Perché in realtà dipende molto dal grado di umidità presente vicino al suolo. Abbiamo visto che nello strato limite l’area sale, e salendo si raffredda. Il raffreddamento aumenta l’umidità relativa portando il vapore acqueo più vicino alla saturazione. Se l’aria nello strato limite è molto umida, la condensazione può avvenire nello strato limite stesso, formando nubi stratificate, poco spesse – gneralmente stratocumuli – che non possono salire oltre l’inversione termica per via della sua stabilità, ma possono stazionare anche tutto il giorno. Questo tipo di nubi anticicloniche è abbastanza tipico delle condizioni anticicloniche autunnali e invernali in Valle Padana, quando l’inversione termica è così bassa da situarsi dentro il catino delle Alpi, e quindi è protetta da eventuali infiltrazioni di aria transalpina, e può perdonare per diversi giorni.

Tutto il discorso che vi ho fatto finora si riferisce principalmente alle ore diurne. Nelle ore notturne, se il cielo è sereno, vicino al suolo l’irraggiamento notturno, cioè l’emissione di radiazione infrarossa del terreno, tende a far diminuire rapidamente la temperatura del suolo, e a seguire quella dell’area immediatamente vicino al suolo stesso. Si forma così, anche in prossimità del suolo, un’altra inversione termica, di spessore tanto maggiore quanto più lunga e la notte, più sereno è il cielo, e quanto meno vento c’è. Di solito, dalle nostre parti, lo spessore tipico di questa inversione è di 100-200 metri a partire dal suolo. In questo strato l’aria è molto stabile. Il mattino successivo, in caso di cielo ancora sereno, questa inversione viene rimossa più o meno rapidamente dalla radiazione solare (ovviamente dipende dalla stagione: d’inverno è molto più lento questo processo), a meno che durante la notte non si sia formata della nebbia da irraggiamento: questo perché il vapore acqueo, per via del calo termico, può aver raggiunto il punto di saturazione e quindi essere condensato. In questo caso, la rimozione dello strato di inversione è molto più lenta in quanto la sommità della nebbia riflette la radiazione solare.

Concludo questo discorso ribadendo quanto avevo già detto e spiegato in una pillola precedente, a febbraio, quando avevo parlato dell’inquinamento. Le condizioni anticicloniche, come si è visto, tendono a impedire il rimescolamento dello strato limite col resto della troposfera, per via della barriera di stabilità dovuta all’inversione termica. Se d’estate questo non è un problema grave, dato che lo spessore dello strato limite frequentemente supera i 2-3 chilometri e quindi garantisce comunque il rimescolamento dell’aria nel sottilissimo strato di pochi metri dal suolo in cui noi viviamo (oggi comunque non vi parlo dello smog fotochimico, che è presente di più d’estate), d’inverno la situazione è diversa. Innanzitutto lo strato limite è molto più sottile, d’inverno. Inoltre la radiazione solare è molto debole. Si possono formare nebbie, cosicchè il profilo di temperatura può contenere diversi strati con piccoli inversioni termiche che sono magari residui di evoluzioni dei giorni precedenti, e queste agiscono da barriere e ostacolano il rimescolamento dell’aria. Il risultato è che spesso le emissioni tendono ad accumularsi in uno strato d’aria in cui noi passiamo la maggior parte della nostra vita, influenzando la nostra salute se le sostanze sono nocive (e purtroppo molte lo sono). Per contro, d’estate, può capitare che, in condizioni anticicloniche, lo strato limite, pur rimescolando l’atmosfera in uno strato molto più ampio, non riesca ad eliminare il vapore acqueo che continuamente è emesso in qualche modo dalla superficie terrestre. Questo contribuisce all’aumento progressivo dell’umidità e quindi all’aumento del disagio corporeo, quando alle alte temperature si uniscono alti valori di umidità.

Quindi, come si è visto, gli anticicloni spesso ci regalano il cielo sereno, ma non sempre. E inoltre sono anche associati a problematiche di inquinamento d’inverno e di afa d’estate. Insomma, l’anticiclone non porta sempre il bel tempo, e se contro l’umidità possiamo fare poco, ridurre le emissioni pericolose per la nostra salute dovrebbe essere un imperativo.

Con questo vi saluto e vi do appuntamento alla prossima pillola. Arrivederci.

La grandine e i temporali

La grandine e i temporali

Il 22 giugno scorso era appena iniziata l’estate astronomica con la prima ondata di caldo seria della stagione, dopo che i primi venti giorni di giugno ci avevano fatto assaporare temperature leggermente sotto le medie e molta instabilità, tanto che su molti giornali e media erano apparsi titoli dubitativi sull’estate e le grandinate (talora riferite addirittura come nevicate!) erano evidenziate come se fossero eventi inusuali. Ma è davvero inusuale veder grandinare a giugno? Come si forma la grandine? Come si differenzia da altri tipi di precipitazioni ghiacciate, tipo il graupel? A queste domande intende rispondere questo post, che è la trascrizione del filmato presente sul mio canale You Tube e su IGTV (a cui rimando per una visione figurativa), a sua volta costruito su questo podcast apparso su Radio Ros Brera che, neanche a farlo apposta, appare appropriato per la nuova ondata di temporali che proprio oggi abborderà il nordovest italiano per poi spazzare tutta la penisola.

Nei giorni scorsi la caratteristica del tempo meteorologico in molte regioni italiane è stata l’instabilità, che ha portato alla formazione di numerosi fenomeni precipitativi a carattere di rovescio o temporale, talora anche più volte nella stessa giornata e nella stessa località. Oltre alle precipitazioni localmente molto intense e tali da produrre allagamenti, e talora vere e proprie alluvioni (citiamo, tra gli altri, gli episodi avvenuti a Torino città e altri centri del torinese, nel vicentino e nel veronese fino alle Dolomiti, nel Varesotto, comasco e bergamasco, nell’udinese, nel bolognese, in Garfagnana e altre zone della Toscana, nel genovese e savonese, in Abruzzo, in Puglia, nel casertano, ed in altri luoghi ancora), sono state segnalate un po’ ovunque grandinate, talora anche copiose pur se nella maggior parte dei casi costituite da chicchi di dimensioni moderate, i cui danni maggiori sono consistiti nell’accumulo rilevante di certe località.

E quindi oggi parliamo delle precipitazioni e della grandine. Perché si formano le nubi, e perché nascono le precipitazioni?

C’è un detto che afferma che “le nuvole non nascono semplicemente per caso: c’è sempre una ragione”. E infatti sono necessari degli ingredienti, allo stesso modo di quando uno chef si accinge a preparare una torta. Nel caso delle nubi, tutti e tre gli ingredienti sono indispensabili, così come è necessario il lievito per fare il pane o la pizza. Siccome ne abbiamo già parlato in una pillola precedente, mi limito oggi a riassumerli. Il primo ingrediente fondamentale è il vapore acqueo. Questo c’è dappertutto nell’atmosfera del nostro pianeta, anche se noi – contrariamente a quanto qualcuno crede – non possiamo vederlo, perché non è visibile alle lunghezze d’onda dei nostri occhi (lo vedono però bene i satelliti che guardano in una particolare banda dell’infrarosso). Il secondo ingrediente fondamentale sono i nuclei di condensazione: si tratta di piccole particelle microscopiche che fluttuano in atmosfera, prodotte sia naturalmente che dalle attività umane (soprattutto la combustione). Anche di questi c’è abbondanza in natura, e ce ne sono in maniera sufficiente ovunque: dei tre, questo è probabilmente l’ingrediente meno problematico. Il terzo ingrediente è il raffreddamento, che favorisce la condensazione del vapore acqueo in acqua oppure direttamente in ghiaccio se la temperatura è inferiore a 0 °C. Il rateo di condensazione avviene fino alla saturazione, il cui valore è stabilito dalla legge fisica di Clausius-Clapeyron. In atmosfera il raffreddamento avviene comunemente quando ci sono dei movimenti verticali dell’aria verso l’alto. Una volta che si sono formate le goccioline di nube o i cristalli di ghiaccio, per diffusione e condensazione (si parla di dimensioni di decimi di micron o inferiori), questi corpuscoli possono accrescere le proprie dimensioni fino a divenire oggetti precipitanti (gocce di pioggia, fiocchi di neve, chicchi di grandine o palline di neve o ghiaccio) grazie alle collisioni tra di loro ed alla coalescenza, oppure grazie a un particolare meccanismo di interazione tra gocce di acqua e cristalli di ghiaccio, che favorisce la crescita di questi ultimi. Quando la crescita porta a oggetti il cui peso diventa insostenibile da parte delle correnti ascendenti, oppure quando tali corpuscoli vengono raccolti da una delle correnti discendenti presenti nelle nubi, ecco che cadono a terra.

Che cosa cambia in questo discorso quando l’atmosfera è caratterizzata da una consistente instabilità? Nei meccanismi che ho descritto prima, sostanzialmente niente. Il principale risultato dell’instabilità è di favorire l’insorgenza di movimenti verticali verso l’alto più vigorosi ed estesi, spesso fino a raggiungere la sommità della tropopausa. Se questo avviene d’estate, stiamo parlando di quote tra i 12 e i 15 km. Le velocità verticali che si vengono a creare in queste vere e proprie colonne ascendenti possono anche essere di qualche m/s, una velocità particolarmente alta lungo la verticale, e in grado di sorreggere gocce o particelle di ghiaccio molto più pesanti. Ecco quindi che gocce o cristalli di ghiaccio possono rimanere nella nube per molto più tempo e quindi aumentare le loro dimensioni fino a valori molto ragguardevoli, di qualche cm.

In questo percorso, la temperatura può variare in modo molto consistente. Immaginiamo di avere, a livello del suolo (zero m sul livello del mare), una temperatura di 30 °C. Il profilo medio verticale di temperatura dell’atmosfera prevede una diminuzione di circa 6,5 °C ogni m di quota. Ipotizzando che la tropopausa sia anche solo a 12 km di quota, questo significa che la temperatura alla sua sommità, a 12 km di quota, sarà di 78 °C inferiore, quindi di -48 °C. In realtà, essendo l’atmosfera instabile, è probabile che sia anche inferiore a tale valore. Questo è un semplice esercizio numerico, ma rende l’idea della forte variazione di temperatura lungo il percorso verticale. In questo esempio, lo zero termico potrebbe collocarsi intorno ai 4,6 km di quota.

E qui arriviamo al discorso sulla grandine, che è una forma di precipitazione solida che i meteorologi differenziano, per diametro e densità, dalle palline di ghiaccio (ice pellet o sleet in inglese), sebbene si faccia spesso confusione. La grandine è costituita da palline o grumi irregolari di ghiaccio, ognuno dei quali è chiamato chicco di grandine. Iniziamo col dire che si parla di grandine quando i suoi chicchi hanno un diametro di almeno 5 millimetri (sono anche stati osservati chicchi del peso di mezzo chilogrammo e 15 cm di diametro). Etimologicamente la parola grandine, di derivazione latina, viene da una parola antica sanscrita (GHRAD) il cui significato è di qualcosa che fa rumore o strepito. Il fenomeno della grandine meteorologicamente si differenzia dal graupel (costituito da ghiaccio tipo brina, cioé fibroso) e dalle palline di neve o ghiaccio (snow o ice pellet), rispettivamente formate da ghiaccio fibroso o traslucido) sia per le dimensioni notevolmente inferiori di questi ultimi, sia per la diversa densità e le velocità di caduta.

La grandine normalmente si verifica nella maggior parte dei temporali poiché è prodotta all’interno dei cumulonembi. La sua formazione richiede forti movimenti dell’aria verso l’alto e altezze ridotte del livello di congelamento. Ne deriva che, alle medie latitudini, la grandine si forma prevalentemente nelle zone interne continentali, mentre ai tropici tende ad essere limitata alle quote più alte.

A differenza delle palline di ghiaccio o neve (graupel), i chicchi di grandine sono stratificati e possono essere di forma irregolare oppure raggruppati insieme. La grandine è composta comunemente da strati alternati di ghiaccio trasparente e traslucido, spessi ciascuno almeno 1 millimetro. Questi strati si depositano mentre il chicco viaggia su e giù attraverso la nube, fino a quando il suo peso non può venire retto dalle correnti ascendenti e il chicco inizia a muoversi verso terra, accelerando progressivamente. Normalmente i danni principali si verificano con dimensioni dei chicchi uguali o superiori a 2 cm, anche se tale soglia è stabilita in modo diverso da nazione a nazione. Lo strato di ghiaccio fibroso tende a formarsi quando il vapore acqueo si trasforma direttamente in ghiaccio sulla superficie del chicco, quindi nelle porzioni più fredde e alte del cumulonembo, mentre lo strato traslucido si forma nelle zone più calde della nube, ma sempre sottozero, quando la pellicola di acqua che avvolge il chicco congela, e quando congelano anche le goccioline di acqua sopraffusa. Se il chicco oltrepassa il livello di zero termico (cioè la quota a cui ci sono 0 °C), invece, la superficie esterna dello stesso si bagna, ma questa fase è necessaria per la crescita del chicco in quanto la pellicola bagnata, congelando in occasione della salita succcessiva del chicco, contribuisce a farlo crescere. Proprio per questo motivo, se la temperatura superficiale è troppo bassa (prossima a 0 °C o di poco superiore), da un lato lo strato in cui il chicco si bagna è troppo sottile e la crescita del chicco è molto più lenta, e dall’altro i moti verticali sono meno vigorosi e non permettono il sostentamento di corpi troppo pesanti, col risultato che spesso i cristalli di ghiaccio rimangono allo stato di graupel o palline di ghiaccio. In tale caso si possono avere precipitazioni di tipo neveìoso, palline di neve o ghiaccio.

Nell’esempio numerico che ho fatto prima (30 °C al suolo, tropopausa a 12 km, zero termico a 4,6 km), un chicco che si muova su e giù dentro un cumulonembo potrebbe saltellare in continuo tra valori termici nettamente sopra zero e sottozero, accrescendosi ad ogni “viaggio” di un po’.

Una volta che inizia a cadere, la velocità di caduta dei chicchi di grandine aumenta man mano che crescono le loro dimensioni, in quanto l’accelerazione a cui è sottoposto il chicco stesso è proporzionale al peso (almeno inizialmente, finché la forza di attrito non riesce a controbilanciarlo). Proprio la dimensione dei chicchi e, conseguentemente, la loro velocità di caduta sono gli elementi che più influiscono sui danni provocati da questo fenomeno.

Notiamo che la genesi della grandine è completamente diversa da quella della neve, la quale richiede che sia la nube che gran parte dell’atmosfera siano con temperature sottozero, salvo al limite lo strato più superficiale vicino al suolo. Nel caso della neve la nube contiene soltanto cristalli di ghiaccio o goccioline di acqua allo stato sopraffuso, e la precipitazione inizia con soli fiocchi di neve, i quali durante la caduta al limite possono fondere in parte quando entrano in uno strato con temperature sopra zero, producendo la pioggia mista a neve. D’inverno, si possono avere nevicate sotto i cumulonembi se l’intera nube si trova al di sopra dello zero termico.

Come si è visto, pertanto, la grandine è un fenomeno relativamente comune nel semestre caldo, in quanto è associata alle nubi temporalesche a sviluppo verticale (cumuli imponenti o comulonembi), quindi non deve stupire se a giugno assistiamo a grandinate anche diffuse sul territorio nazionale. Possiamo però dire che la frequenza o l’intensità delle grandinate stia aumentando a seguito del riscaldamento globale? In linea di massima, dal momento che le grandinate sono favorite da un consistente gradiente termico nella troposfera tra le temperature alla superficie e quelle nei pressi della tropopausa, si può dire che ci aspettiamo un incremento sia nel numero delle grandinate, sia della loro intensità, su tempi scala però di tipo climatologico (quindi di almeno trent’anni). Nella fattispecie, tuttavia, le temperature registrate in questi giorni di giugno che hanno preceduto il solstizio estivo sono state inferiori rispetto alle medie del periodo, e quindi non si può parlare, almeno da noi in questo periodo, di effetto amplificatore da parte del riscaldamento globale. Si è trattato semplicemente di una fase fresca e instabile di stampo primaverile, provocata da incursioni fredde sfociate in una saccatura permanente sull’Europa occidentale, che si è propagata fino alla parte iniziale dell’estate meteorologica, rendendo il mese di giugno più piovoso (almeno per quanto riguarda il nordovest) dei due mesi che lo hanno preceduto (contraddicendo la climatologia, che mostra come mesi più piovosi dell’anno proprio aprile e maggio), e consentendo un parziale ma non ancora completo recupero (anche a causa della natura violenta delle precipitazioni) dalle condizioni di forte siccità che avevano caratterizzato il primo trimestre di quest’anno.

Con queste parole vi saluto e ci risentiremo alla prossima pillola meteoclimatica.

Filmati: su You Tube e su IGTV. Podcast: su Radio Ros Brera.

La crescita esponenziale e la ritrosia umana nel comprenderla

La crescita esponenziale e la ritrosia umana nel comprenderla

In questi giorni si è parlato tanto di crescita esponenziale a proposito del Coronavirus. Ma in realtà questo tipo di andamento è caratteristico di molti processi non soltanto biologici, pur con le dovute premesse, di cui parleremo in seguito. Ad esempio, lo stesso tipo di crescita che caratterizza il numero di microorganismi in una coltura (finché il nutriente essenziale è presente), o le cellule, o la numerosità di un virus, o ancora la popolazione umana (se il numero di nascite e morti per persona per anno rimane costante), lo ritroviamo anche in fisica o in economia. Ad esempio, lo scoccare di un fulmine è l’esempio della rottura di un dielettrico, in cui agisce un aumento esponenziale del numero di elettroni. Nella fissione nucleare, ogni nucleo di uranio soggetto a fissione produce neutroni che, in una reazione a catena, collidono con gli atomi di uranio adiacenti, causando una crescita esponenziale di reazioni di fissione. Anche avvicinando un microfono ad un altoparlante ad esso collegato causa una crescita esponenziale del segnale amplificato. E la potenza dei computer dalla loro comparsa ha seguito una curva ben approssimata da una crescita esponenziale. Allo stesso modo, in economia, l’interesse composto con tasso di interesse costante genera una crescita esponenziale, senza poi dimenticare i sistemi a piramide o gli schemi di Ponzi. Per concludere, l’aumento della concentrazione di anidride carbonica dalla Rivoluzione Industriale a oggi sta procedendo con un aumento di tipo esponenziale.

Ma che cosa si intende esattamente per aumento o crescita esponenziale? Per comprenderlo, è meglio introdurre prima la crescita lineare. Una grandezza cresce linearmente quando, ad intervalli di tempo uguali, corrispondono incrementi uguali. Ad esempio, se ad un bambino, Paolo, i genitori avessero donato una cifra iniziale di 3000 euro e poi gli avessero aggiunto un euro al giorno, dopo un anno Paolo avrebbe 3365 euro, dopo due anni 3730 (trascuriamo gli anni bisestili), dopo cinque 4825, dopo dieci anni 6650, e dopo venti 10300 euro. Un bel gruzzoletto. Cioè ad ogni anno la somma si sarebbe incrementata di 365 euro.

Una grandezza invece ha una crescita esponenziale quando, ad intervalli di tempo uguali, corrispondono incrementi pari ad una frazione costante del totale. Se, in un’altra famiglia, i genitori avessero dato al loro bambino, Andrea, 3000 euro come a Paolo, ma soltanto per il primo anno, però garantendogli per tutti gli anni successivi un tasso di interesse del 10%, ecco che avremmo una crescita esponenziale. Vediamo il conto. All’inizio del secondo anno, il valore della somma di Andrea sarebbe di 3000 euro moltiplicato per 1,10 (cioè il 110%, dove il 100% è la somma iniziale e il 10% l’incremento annuo), cioè 3300 euro. All’inizio del terzo anno, la somma diventerebbe 3300 euro x 1,10 = 3630 euro. Notiamo che 3630 = 3000 x 1,10 x 1,10 = 3000 x (1,10)2 dove la cifra iniziale è moltiplicata per 1,10 elevato al numero degli anni precedenti. All’inizio del sesto anno, la somma diventerebbe quindi 3000 x (1,10)5 = 4831,53 euro. All’inizio dell’undicesimo anno sarebbe 3000 x (1,10)10 = 7781,23 euro. E al termine del ventesimo anno 3000 x (1,10)19 = 18347,73 euro. Vediamo questi andamenti in Figura 1.

Figura 1 – esempio di crescita lineare ed esponenziale

Notiamo come, quanto maggiore è la somma depositata inizialmente sul conto di Andrea, tanto più denaro verrà aggiunto ogni anno come interesse; ma quanto più se ne aggiunge tanto più ve ne sarà nel conto l’anno successivo e quindi ancora più se ne aggiungerà come interesse. La caratteristica delle crescite esponenziali è proprio questa: più è grande la quantità di cui si dispone, più essa aumenta. Se la quantità è piccola aumenta poco, se è media aumenta moderatamente, se è grande aumenta molto. Notiamo anche che questo modo di pensare non ci sembra logico: istintivamente non si riesce a capire quale dei due sistemi sia il più conveniente, a meno che uno non ci capisca di matematica o non guardi la Figura 1, al punto che uno potrebbe essere indotto a pensare che un aumento lineare nel tempo sia più sicuro.

Vediamo anche che, per la particolare scelta dei valori, nel mio esempio, per i primi sette anni Paolo avrebbe più soldi di Andrea. Non molti, ma qualcosina in più. E potrebbe pensare di essere stato più fortunato. Tuttavia, dal nono anno in poi, Andrea balza davanti e poi distanzia sempre di più Paolo, tanto che al ventesimo anno Andrea ha quasi il doppio dei soldi rispetto a Paolo.

C’è ancora una cosa da dire. Crescita esponenziale non è sinonimo di crescita veloce. Lo si dovrebbe capire anche solo guardando il grafico di Figura 1, ma diventa più chiaro guardando invece le tre funzioni illustrate in Figura 2.

Figura 2 – andamento di una funzione lineare, di una cubica e di una esponenziale. Fonte: Verità matematiche:”crescita esponenziale” non è sinonimo di “crescita veloce”

La Figura 2 mostra tre diversi tipi di aumento: una crescita lineare (in rosso), una crescita cubica (in blu), e una crescita esponenziale (in verde). La prima e la terza sono quelle che abbiamo visto in Figura 1. Se immaginiamo che la variabile x denoti il tempo, si vede come nella terza funzione la x appaia come esponente, e da questo la funzione prende il nome di esponenziale. La seconda, invece, è una funzione di potenza, dove la variabile tempo è il valore base elevato ad un esponente fisso (in questo caso il cubo); tali funzioni sono anche dette polinomiali se compaiono più monomi addizionati o sottratti. La prima, invece, è una funzione lineare, del tipo y = a x + b (con a=50 e b=0 nel caso specifico).

Come si può vedere chiaramente in Figura 2, la crescita esponenziale non è dappertutto la funzione di crescita più veloce. Inizialmente, ad esempio, sia la crescita lineare che quella cubica risultano più veloci della crescita esponenziale. Lo avevamo visto anche nel caso di Paolo e Andrea (Figura 1), per i primi otto anni. I fenomeni sottoposti ad una legge di crescita esponenziale non sono infatti caratterizzati da una crescita iniziale veloce. Nella prima fase, infatti, la crescita è piuttosto lenta, ma poi subisce un’accelerazione improvvisa (quasi esplosiva e spesso inaspettata), che è spesso causa di cambiamenti repentini, oltre le aspettative. E con i numeri di questi giorni lo abbiamo imparato.

Ci sono varie storie al riguardo delle crescite esponenziali. Mi piace iniziare con quella di Donella Meadows, una delle coautrici del libro “I limiti dello sviluppo” (qui è scaricabile il pdf della versione completa in inglese), che propose il seguente indovinello. Immaginiamo che ci sia un laghetto al centro del quale cresce una ninfea che ogni giorno raddoppia le proprie dimensioni (si tratta quindi di una crescita di tipo esponenziale, da quanto abbiamo visto). Si sa che, se la pianta potesse svilupparsi liberamente, dopo 30 giorni coprirebbe completamente il lago, soffocando tutte le altre forme di vita. Ora, se si decidesse di tagliare la ninfea quando le sue foglie hanno coperto metà del lago, in modo da salvarlo da morte sicura, in quale giorno si dovrebbe intervenire?

Il nostro cervello generalmente non ragiona in modo esponenziale, e si sarebbe portati a dire verso metà tempo, quindi intorno al quindicesimo giorno. Al limite uno potrebbe pensare che, dato che il fenomeno è non lineare, forse quel giorno potrebbe essere più avanti.

La risposta corretta però è: al 29° giorno. Ed è logico anche pensarlo: se ogni giorno la ninfea raddoppia e se il trentesimo giorno ricopre tutto il lago, è evidente che metà lago sarà ricoperto il giorno prima. Cioè resterebbe un solo giorno di tempo per rimediare ad una situazione che il giorno dopo diventerebbe irreparabile e incontrollabile. Il risultato può apparire sorprendente, soprattutto se si riflette sul fatto che il 25° giorno era coperto appena poco più del 3% del lago. Nelle crescite di tipo esponenziale, all’inizio le variazioni sono molto piccole, poi accelerano improvvisamente in modo impressionante. Questo tipo di dinamiche sono difficili da comprendere da parte del cervello umano.

Anche in meteorologia ci sono fenomeni soggetti ad aumenti (o diminuzioni) di tipo esponenziale. Ad esempio, uno è dato dalla crescita per diffusione e condensazione delle goccioline microscopiche di nube, che poi crescendo ulteriormente potranno dare origine alle precipitazioni. In una prima fase, la condensazione di vapore acqueo su un nucleo di condensazione quando il valore di umidità relativa si avvicina alla saturazione (100%) avviene in modo rapidissimo. Si parla di attivazione della nube proprio per il fatto che, in questa prima fase, l’aumento di diametro delle goccioline avviene in maniera esponenziale. Questo lo si può vedere anche nel famoso esperimento delle nuvole in bottiglia (qui un mio video al riguardo), che dimostra quanto sia rapida la fase iniziale di crescita. Allo stesso modo, quando una porzione di nube viene sospinta in una zona a bassa umidità, le goccioline evaporano, e anche questo processo avviene in modo esponenziale, producendo una vera e propria sparizione della nube. Anche per questo i contorni delle nubi composte da sole goccioline di acqua sono così netti: per la rapidità esponenziale dei processi di crescita e diminuzione.

La crescita di tipo esponenziale viene spesso espressa efficacemente attraverso il cosiddetto “tempo di raddoppio”, cioè il tempo necessario affinché una grandezza raddoppi il proprio valore (incremento del 100%). Nel caso della ninfea dell’indovinello di Donella Meadows, il tempo di raddoppio è di un giorno; nel caso dei soldi di Andrea, di otto anni circa.

Questo però ci fa introdurre un altro concetto. La crescita esponenziale è infinita? Matematicamente si, fisicamente in realtà no. In tutti gli esempi che abbiamo fatto finora, ci sono sempre dei motivi che limitano la crescita. Ovvero, in natura la crescita esponenziale non esiste. Pensiamo ad Andrea: a parte che dopo venti anni dovrebbe essere maggiorenne e quindi probabilmente non dipendere più dall’interesse dei genitori, anche ipotizzando che possa continuare a goderne, in realtà è impensabile che accada: i genitori dovrebbero infatti versargli sempre più soldi. Nel caso delle goccioline di nube, il limite è dato dalla disponibilità di vapore acqueo e dal fatto che, per aumentare di diametro, una goccia deve far condensare una quantità sempre maggiore di vapore acqueo tanto più è grande, e alla fine ne esaurisce la disponibilità. La ninfea nel lago, oltre il trentesimo giorno non potrà più crescere perché il lago è finito. E il numero di microorganismi in una coltura si stabilizzerà quando il nutriente sarà terminato. Anche i virus smetteranno di diffondersi quando gli organismi ospiti saranno tutti in grado di contrastarlo, oppure saranno tutti morti. E la potenza dei computer non potrà aumentare indefinitamente, almeno non con la tecnologia attuale, visto che con la miniaturizzazione si è ormai arrivati alle soglie delle dimensioni atomiche.

Un ultimo esempio che vorrei fare è quello del numero di abitanti sulla Terra. Secondo i calcoli dell’organizzazione World Population Balance, lo scorso 19 luglio 2018 è stato il giorno in cui il numero di abitanti del nostro pianeta ha raggiunto i 7 miliardi e mezzo. Il calcolo si basa su un tasso di crescita di 140 persone al minuto, cioè 8.400 individui all’ora, 201.600 al giorno e 73.584.000 all’anno. L’andamento è simile ad una crescita esponenziale, con un tasso di crescita di circa l’1,5% all’anno. Potrà continuare all’infinito questo tipo di crescita? Il tempo di raddoppio è di circa tre decenni, ma è del tutto evidente che la popolazione non potrà continuare a crescere a questo ritmo perché la Terra è di dimensioni finite e su di essa non può esserci niente che diventa infinitamente grande. Oltretutto la Terra non potrebbe neppure produrre alimenti in quantità crescenti in maniera esponenziale, né ospitare rifiuti che crescano con la stessa legge. Pertanto se ne deduce che, in natura, il modello di aumento esponenziale può approssimare soltanto la fase iniziale di un processo fisico, biologico, economico o informatico.